di Sergio Pissavini, Partner yourCEO
Di peak performance si sente molto parlare in psicologia dello sport, ma è un concetto applicabile anche all’universo business. Per peak performance s’intende la miglior prestazione possibile, raggiungibile quando si è al top delle proprie capacità, completamente concentrati e immersi in sentimenti di fiducia, impegno e coinvolgimento. È convinzione comune che per “performare” al meglio si debba lavorare incessantemente, senza riposo, spingendosi al limite. Ma è davvero così?
Nel corso della mia carriera, in diverse occasioni ho avuto modo di assodare che sovraccaricarsi e spingersi sempre più lontano dalla propria comfort zone per ottenere obiettivi ambiziosi può essere un modus operandi valido per alcuni individui, ma non un modello sostenibile e applicabile dalle aziende su larga scala.
La relazione tra “pressione” e prestazione è rappresentata in forma grafica dalla legge Yerkes – Dodson (1908) nella così chiamata “curva della performance”. A me piace sostituire la definizione di “optimum stress” con il concetto di “calma creativa”.
Secondo lo schema, la peak performance viene raggiunta quando si è all’apice della fase di tensione “sana”, quella tensione cioè che, portandoci fuori dalla comfort zone, ci consente di allenare e consolidare le nostre capacità e di perfezionare le nostre azioni. Se si continua tuttavia a spingere e si supera la soglia della calma creativa, si ottiene il risultato contrario di quanto desiderato. Dalla vetta si precipita verso una condizione di stress eccessivo che conduce a fatica cronica, peggioramento della salute psicofisica, stati d’ansia, fino a sfociare in situazioni di burnout, con un calo drastico delle performance.
Il management aziendale deve saper adottare un modello di operatività che punti a incrementare le performance dei diversi dipartimenti che caratterizzano l’azienda (produttivo, finanziario, commerciale, etc.), senza tuttavia innescare processi che a lungo andare conducono all’esaurimento delle energie e delle risorse.
Riporto un esempio emblematico con cui ho avuto a che fare durante il mio percorso lavorativo. In un’azienda operava un manager molto stimato, altamente performativo, figura chiave per il suo diretto superiore. Il suo incarico comportava frequenti e lunghi viaggi nell’Estremo Oriente. Se fosse stata tracciata una curva delle sue performance nell’arco temporale, avremmo visto una continua crescita.
Quante volte si tende a caricare il nostro collaboratore più rapido, più agile, più efficace perché non necessita della nostra attenzione né di un nostro intervento diretto? Il suo responsabile di fatti si sentiva legittimato ad affidargli incarichi sempre più complessi, posticipando continuamente la fase di creative calm prevista dallo schema Yerkes – Dodson.
Gli fu affidato un incarico molto importante che prevedeva una trasferta in Giappone. Il giorno della partenza il manager non si presentò in aeroporto, creando una situazione emergenziale per la società. La ragione fu un improvviso attacco di panico, cui seguirono una severa insonnia, disturbi d’ansia e soprattutto paura. Paura dell’insuccesso, di essersi mostrato “debole” agli occhi del suo responsabile, del top management, dei colleghi. Non è difficile intuire che la crisi lavorativa finì per impattare negativamente anche sulla sua salute fisica e sulla sfera famigliare.
Il mio ricordo risale alla scuola di arrampicate del CAI e la salita di fine corso al Torrione del Cinquantenario. Arrivare in cima e suonare la campanella era essere al Picco delle performance. Salire anche da secondo richiedeva il giusto equilibrio, la consapevolezza delle proprie forze, seguire i consigli del primo di cordata (il Leader) che a sua volta doveva indicare come risolvere i passaggi critici ed essere di aiuto non di semplice sprone. Sapersi fermare per prendere fiato e rilassarsi. Ne ho visti molti cadere e rimanere a pendolare perché troppo aggressivi, usare solo la forza oppure troppi spinti dal primo di cordata senza avere il giusto supporto, aiuto.
In altre parole, senza rendersene conto, era scollinato nella zona di esaurimento, precipitando senza rete di sicurezza verso il burnout. Risalire la china fu complicato e richiese diversi mesi: sedute di psicoterapia e terapie farmacologiche lo aiutarono a ritrovare fiducia in sé stesso e ad accettare le sue fragilità.
Anche per l’azienda fu un momento critico. In brevissimo tempo fu necessario affrontare l’emergenza, trovare un sostituto altrettanto valido, gestire la situazione con il cliente estero, rivedere l’organizzazione e le risorse per tamponare l’assenza, continuando comunque ad esercitare forti pressioni sulla persona già in profonda difficoltà affinché ritornasse al più presto il “superuomo” di un tempo.
Cosa imparò l’azienda all’epoca da questa complessa situazione emergenziale? Mi duole dirlo: quasi nulla. Ci furono cambiamenti minimi, alcune discussioni focalizzate più sulle cause specifiche. Il manager interessato, risolti i sintomi, mantenne il suo stile di management, anzi.
Anni dopo venni a sapere che lo stesso manager, pur avendo provato sulla sua pelle le insidie del burnout, esasperava a sua volta le persone del suo team, spingendole a rincorrere senza sosta obiettivi eccessivamente ambiziosi, se non irraggiungibili.
Altre esperienze simili in aziende differenti mi hanno confermato che è la cultura aziendale che può davvero modificare il contesto generale e guidare un cambiamento. Per concludere, ecco tre riflessioni alle quali sono giunto in questi anni:
1. Mantenere il team nello stato di calma creativa dipende dalla capacità e dall’attenzione del top management. È essenziale implementare una cultura aziendale che riconosca e condivida l’idea che le “peak performances” sono frutto di un equilibrio tra tensione e rilassamento, in cui è importante riconoscere i propri limiti e accettare l’esigenza di momenti di pausa rigenerativa.
2. Il passaggio dalla fase di calma creativa alla zona di fatica ed esaurimento è repentino e ha spesso conseguenze negative anche sulla sfera privata.
3. L’esame empirico rappresentato nello schema prende in considerazione il valore delle performances, lo stress e il costo aziendale. Dai numeri emerge che è bene introdurre in azienda sistemi di check-up per assicurarsi che il team non accumuli innumerevoli giorni di ferie, così come è più che opportuno organizzare eventi di formazione focalizzati sulla gestione dello stress e sul miglioramento della comunicazione interna. Quante volte si richiede e si accetta di rimandare le ferie, dando priorità al business, convinti che altrimenti la nostra immagine all’interno del management ne sarebbe danneggiata? Il management fa una reale stima di quanto l’accumulo di ferie non godute incida a fine anno sui margini aziendali?
Tornando all’esempio del manager, i costi sostenuti dall’azienda per arginare l’emergenza furono di oltre 150.000 euro, per sostituzioni, danni ai progetti in essere, impatto negativo sul mercato. Nella tabella in basso sono riportati i numeri del caso specifico, ma il danno può essere anche maggiore, in base alla posizione che ricopre il manager e alla durata del burnout (dai 6 ai 12 mesi, se non oltre).
Quanto sarebbe costato avere un sistema di prevenzione per verificare se fosse necessario “spingere” per qualche opportuno giorno di stacco? Un’analisi costi-benefici può darci degli elementi in più per riflettere sulla risposta. Il grafico successivo rappresenta una personale analisi costi-benefici e identifica con chiarezza quanto un programma di check-up e una cultura aziendale che miri al benessere psicofisico di un manager siano strumenti indispensabili per raggiungere e mantenere le peak performance, evitando dannose situazioni di burnout.
La cultura aziendale è il driver, l’analisi economica può dare la prima spinta, ma è fondamentale che siano accompagnate dalla consapevolezza dell’importanza la gestione dello stress. Sono i motori più potenti della crescita continua, dell’innovazione, delle performance costanti nel tempo.